Territorio
Le nostre attività si concentrano a Codera, capoluogo della valle, ma sono diffuse anche in altre piccole frazioni.
Il borgo di Codera, per secoli abitato da comunità autosufficienti di oltre 500 individui, è arrivata al limite dell’abbandono alla fine del secolo scorso a causa del crescente spopolamento delle aree alpine a favore delle zone urbane. Al giorno d’oggi, i residenti stabili sono pochissime unità, ma le famiglie originarie hanno sempre mantenuto un forte legame con il luogo, cercando di mantenere il valore identitario del borgo.
Situato su una altura nota come “la Mutta,” San Giorgio è stato un antico presidio difensivo e punto di osservazione, grazie alla sua posizione strategica tra il passo dello Spluga e la pianura lombarda.
Storicamente, questa regione ha ospitato popolazioni fin dall'epoca preistorica. Romani, Longobardi e successivamente le Tre Leghe hanno influenzato l'area, portando con sé fortificazioni e strutture di difesa.
Nel tempo, la valle divenne anche un rifugio per chi sfuggiva alle guerre e alla malaria. Reperti antichi come tombe in massi erratici testimoniano l’importanza storica e spirituale del luogo.
Oggi, l'Associazione Amici di San Giorgio lavora per preservare il patrimonio culturale e naturale di quest'area, mantenendo vive le tradizioni attraverso la cura del museo locale e promuovendo iniziative di restauro e manutenzione del paesaggio.
Nucleo di antica formazione (prima del XIV secolo), originariamente chiamato Clivium a causa della pendenza del terreno (si diceva che i suoi abitanti dovessero far indossare la biancheria intima alle galline per evitare che le uova rotolassero a valle).
Fu abitato tutto l’anno fino al 1990 (nel 1888: 33 persone, 1990: 3 persone). Dal 1999 l’Associazione Amici della Val Codera ogni anno con i volontari mantiene pulito e falciato il villaggio.
Dal 2022, l’Associazione ha ripristinato diversi muretti a secco per riprendere la coltivazione della patata, che viene qui coltivata secondo la cosiddetta 'agricoltura eroica’, senza l’utilizzo di grossi macchinari agricoli o fertilizzanti chimici.
Intatto gruppo di edifici di granito, case, stalle per bovini e fienili sgranati sul piano inclinato che si stende alla sinistra idrografica del torrente Beleniga. Il nucleo, guardato dalla Capèla del Sabbiùm, è stato abitato stabilmente sino al 2005 (chi non ricorda Romolo Penone, ultimo appassionato valligiano che tramandava le ancestrali regole della cura delle capre, della manutenzione dei prati e della produzione del rinomatissimo Mascarpìn?).
La Salina ha un nome antichissimo e derivato dalla radice etimologica sel- sal- che significa pietra e indicava in origine il fronte sassoso della morena del ghiacciaio di Val Codera, che si staglia, ora ricoperto di bosco, ove un tempo e valligiani avevano ricavato pendii da sfalcio, alle spalle delle case. Queste ultime furono in gran parte bruciate durante la rappresaglia nazifascista del dicembre 1944: poche resistettero alle bombe incendiarie, quasi tutte furono ricostruite con enormi sacrifici. A testimonianza dell'orrore della guerra rimane qualche muro sbrecciato e le rovine della cosiddetta Cà di Titòla.
Campi e prati della Salina, con i caratteristici muretti divisori in pietre a secco, vengono ora tenuti falciati da una rete di volontariato che comprende l'Associazione Amici Val Codera, il Consorzio Alpe del Pizzo, il Consorzio Forestale ed i proprietari, con la fattiva collaborazione di gruppi Scout.
Trae il nome dal sito pianeggiante - il fondo della morena glaciale preistorica - ove è adagiato. Diversamente dalla Salina, le case dalla caratteristica architettura litica, sono raggruppate le une presso le altre al centro del ripiano prativo.
A distanza si trova la Cappella di San Guglielmo, cui in tempo remoti si veniva in processione una volta l'anno da Codera. La posizione defilata degli edifici li salvò dalla distruzione bellica, transitando la soldataglia nazi-fascista lungo il fiume Codera, al piede del ripiano.
Le sue case, insieme a quelle di Codera ed alle poche salvatesi di Salina, sono tra le più antiche della valle ed in esse sono conservate soluzioni tecniche particolari come la "volta piana". Famoso un tempo per la prelibatezza delle sue patate, la tradizione racconta che qui a metà Ottocento venne ucciso l'ultimo orso della Val Codera.
Con l'omonimo rifugio aperto nel 1986 è il più grande e bell'alpeggio della valle, una volta monticato da un buon numero di capi (sino ad 80), in una splendida piana occupata in tempo remoti da un lago, ed ora purtroppo percorso da periodiche piene del fiume Codera.
La bella chiesetta dedicata a Cristo Re e la Caserma della Guardia di Finanza ben si armonizzano con le baite, quasi tutte ricostruite dopo il disastroso incendio nazifascista.
La piana ed i boschi tra Brasciadiga e la Capanna Brasca furono teatro dei Campi Estivi delle Aquile Randagie, gruppo di scout di Monza-Milano che osò sfidare le Leggi Fascistissime, che fecero convergere tutte le associazioni giovanili nella Gioventù Littoria. Conoscendo la valle ed il suo isolamento, essi riuscirono anche durante l'ultimo conflitto mondiale a perpetuare qui la fede e l'identità scoutistica.
Rifugio del CAI sezione di Milano, costruito nel 1934 in una idilliaca posizione in vista delle Cascate Gemelle (i Funtann) della Valle Arnasca (altro nome preindoeuropeo che indica una valle ricca d'acqua), fu dedicato al prof Luigi Brasca (1882-1929) autore della prima guida sulle Alpi Retiche (1911).
Incendiato durante la rappresaglia del dicembre 1944, venne ricostruito tra il 1946 ed il 1948 e costituisce la prima tappa del leggendario Sentiero Roma.